Una bellezza russa e altri racconti di Vladimir Nabokov
«Ciò che ammiriamo sempre, anche quando Nabokov imposta la voce su una nota troppo alta o troppo bassa, è l’infinita sottigliezza delle sensazioni. Quasi nessuno, nel ventesimo secolo, gli sta vicino: forse soltanto Proust e la Woolf, Yeats e Pessoa … Con queste sensazioni sovranamente reali, Nabokov vuole creare un mondo nuovo: un mondo che sia esclusivamente suo, che non assomigli a quello reale, né a quello degli altri scrittori. Qui regnano leggi e consuetudini che non ritroviamo in nessun altro luogo della terra… Alla fine, dopo che abbiamo contemplato e ammirato il lavoro coscienziosissimo di Nabokov, ci assale una sensazione di meraviglia. Il mondo nuovo è avvolto e penetrato di mistero, che lo rende ancora più incomprensibile di quello reale. Nabokov ha creato un enigma, di cui crede di conoscere il significato: mentre nemmeno lui né le farfalle gigantesche, né il grande Re mascherato conoscono l’ultimo segreto dei suoi racconti.” ». Pietro Citati
-Sono favole briose, storie agrodolci di perdita, sconfitta o solitudine, claustrofobici esercizi di orrore, campionature dell’umana follia che si proiettano sullo sfondo di paesaggi urbani colti nella loro “sensazione dinamica” o di fenomeni naturali intesi come epifanie del divino, mentre affiorano continuamente gli echi della giovinezza in Russia, degli anni universitari in Inghilterra, del periodo di émigré in Germania e Francia, e infine del soggiorno in quell’America che – come egli stesso ebbe a dire – andava via via inventando, dopo aver inventato l’Europa.-
– Si tratta di cinquantacinque racconti di cui dieci scritti in inglese, uno scritto in francese, a Parigi, da cui Nabokov transitò diretto in America, e i rimanenti in russo, tra il 1920 e il 1940 a Berlino, che in quegli anni era diventata la capitale della diaspora russa. Sono racconti “scritti a matita”, per se stesso, per sua moglie, per una mezza dozzina di “cari amici defunti e ridacchianti”, senza “uno scopo”, che trovavano spazio in quotidiani émigrés come “Rul'” a Berlino o “Poslednie novosti” a Parigi, grazie a cui Nabokov arrotondava le proprie modeste entrate di precettore e maestro di tennis. L’ambiente è tipico dell’emigrazione berlinese: alberghi, ristoranti, piccoli appartamenti in affitto, treni notturni, caffè deserti su cui immancabilmente scende il buio, mentre già “le sedie sbadigliano e vengono messe a dormire sui tavoli”. I personaggi sono flâneurs straordinariamente ricettivi, solitari, che si circondano di oggetti chiamati a raccolta dal tempo e dallo spazio: libri squinternati, ninnoli, barattolini di vetro, spessi album su cui incollano di tutto, “dai ritagli dei propri versi fino a un biglietto del tram, russo”. Non amano parlare della patria perduta, “così come persone ricche ma finite in rovina nascondono la loro miseria e diventano ancora più altere e inavvicinabili”. È una cerchia di persone “totalmente irreali”, separate dal mondo da una lastra di vetro, consapevoli di appartenere a una razza speciale di sognatori, come l’entomologo protagonista di L’aureliano, uno dei racconti più belli della raccolta: covano dentro di sé progetti che in gioventù potevano apparire deliziosamente eccitanti, ma che con il passare del tempo si trasformano in ossessioni cupe e iraconde. Formano una popolazione di espatriati, di eccentrici sradicati, il cui comportamento risente della natura provvisoria della loro cittadinanza: Aleksej L’vovi? Lužin (cognome che ritroveremo in un altro futuro personaggio nabokoviano), cameriere nella carrozza ristorante di un treno tedesco, prende cocaina, non vede l’amata moglie da cinque anni e si suicida proprio sul treno su cui lei sta viaggiando; Lavrentij Ivanovi? Kruževnicyn, Lik, gira la Francia con una compagnia teatrale in cui interpreta la parte di un russo in una commedia francese, è il prototipo dell’artista esiliato, condannato a vivere aimargini della vita. Molti sognano di viaggiare, pur non abbandonando i sobborghi di Berlino, e costruiscono simbolici ponti immaginari fra la loro esistenza desolata e la visione della perfetta felicità.- (N.C)
La bellezza delle cose fragili di Taiye Selasi,
– Adesso fissa le cose che brillano, catturato da tanta bellezza, e sa quello che già sapeva tanti inverni fa: quando ci si trova davanti a qualcosa di fragile e perfetto in un mondo che è brutto, terribile e crudele, conviene non dare nomi. Meglio fingere che la cosa non esista. E una seconda fitta ora, perché la perfezione esiste, si ostina a esistere nelle cose piú vulnerabili, incurante del fatto che Kweku si rifiuti – un rifiuto ammirevole per la logica che lo motiva – di accoglierla nel suo cuore e nella sua mente. Perché la logica inclemente, la disgrazia di chi è dotato di lucidità, gira e rigira, lo spingono sempre a sbattere la testa contro lo stesso muro: (a) la futilità della visione, a fronte della fatalità della bellezza, soprattutto della bellezza insita nelle cose fragili e in un posto come quello, dove una madre ancora sporca di sangue è costretta a seppellire il figlio appena nato, sciacquarsi con un tubo di gomma per poi tornare a casa a schiacciare patate dolci; (b) la persistenza della bellezza, proprio nelle cose piú fragili: una goccia di rugiada all’alba, una cosa destinata a finire nel giro di qualche istante, in un giardino, in Ghana, il Ghana, terra rigogliosa, morbida, verde, dove le cose fragili muoiono. –
– La bellezza delle cose fragili è una storia commovente delle avventure di una famiglia e un’esplorazione estatica della vita interiore dei suoi membri. Con la sua prosa acuminata e una tecnica impeccabile, Selasi va oltre al rinnovamento della nostra idea di romanzo africano: reinventa la nostra idea di romanzo, punto. Teju Cole
-Fino dalle prime pagine questo romanzo davvero ti coinvolge. Fino dalla descrizione acuta e leggera di un marito che cerca di non svegliare sua moglie scendendo dal letto, anche se lei “dorme come una bambina” o “come un cocoyam, una cosa priva di sensi”. Sin dal racconto di una banale fine per infarto che si colora inaspettatamente nel panorama ghanese che la circonda.
Sin da quel piccolo particolare, le pantofole smarrite, lasciate da parte, ricercate in tutto il romanzo. Sin da quella considerazione sull’inevitabilità della morte di un neonato “il genere di cose di cui ci si preoccupa tanto in America e per nulla invece in posti come Riga o Accra”. Perché così è la vita. Così è ancora oggi in molti paesi del mondo che non ricordiamo mai; così è stata fino a pochi anni fa anche qui, ma dei decenni trascorsi tendiamo a non ricordarci mai
Marina Bellezza di Silvia Avallone
Marina ha vent’anni e una bellezza assoluta. È cresciuta inseguendo l’affetto di suo padre, perduto sulla strada dei casinò e delle belle donne, e di una madre troppo fragile. Per questo dalla vita pretende un risarcimento, che significa lasciare la Valle Cervo, andare in città e prendersi la fama, il denaro, avere il mondo ai suoi piedi. Un sogno da raggiungere subito e con ostinazione. La stessa di Andrea, che lavora part time in una biblioteca e vive all’ombra del fratello emigrato in America, ma ha un progetto folle e coraggioso in cui nessuno vuole credere, neppure suo padre, il granitico ex sindaco di Biella. Per lui la sfida è tornare dove ha cominciato il nonno tanti anni prima, risalire la montagna, ripartire dalle origini.Marina e Andrea si attraggono e respingono come magneti, bruciano di un amore che vuole essere per sempre. Marina ha la voce di una dea, canta e balla nei centri commerciali trasformandoli in discoteche, si muove davanti alle telecamere con destrezza animale. Andrea sceglie invece di lavorare con le mani, di vivere secondo i ritmi antichi delle stagioni. Loro due, insieme, sono la scintilla.
Se con Acciaio Silvia Avallone aveva anticipato la fine di un benessere che credevamo inesauribile, con questo romanzo ci dice che il destino non è già segnato e la vera rivoluzione sta nel rimanere, nel riappropriarci della nostra terra pezzo per pezzo, senza mai arretrare, perché anche se scalzi, furiosi e affamati, è certo che ce la faremo. Le regole del gioco sono cambiate quando i padri hanno divorato il futuro dei figli. Da oggi siamo tutti figli. Siamo tutti luci al neon e campi da arare. Siamo tutti Marina Bellezza.…
e qualche frase famosa sulla Bellezza
La bellezza è una di quelle rare cose che non portano a dubitare di Dio. Jean Anouilh, Becket o l’onore di Dio, 1959
La bellezza è la migliore lettera di raccomandazione. Aristotele, in Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III sec.A chi possiede una grande bellezza, siamo pronti a giustificare qualunque cosa, eccetto una grande intelligenza. Vannuccio Barbaro, Scartafacci (postumo, 2012)
Quel che non è leggermente difforme ha un aspetto insensibile ? ne deriva che l’irregolarità, ossia l’imprevisto, la sorpresa, lo stupore sono una parte essenziale e la caratteristica della bellezza. Charles Baudelaire, Razzi, 1855/62 (postumo 1887/1908)
La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza. Albert Camus, L’uomo in rivolta, 1951
Una volta la bellezza era un dono intimo e da scoprire con pudore. Oggi, massificata in provini e casting, è diventata un possibile lavoro per chi non sa fare niente. Diego De Silva
La bellezza, è un enigma. Fëdor Dostoevskij, L’idiota, 1869
La bellezza salverà il mondo. Fëdor Dostoevskij, L’idiota, 1869
La giovinezza è felice perché ha la capacità di vedere la bellezza. Chiunque sia in grado di mantenere la capacità di vedere la bellezza non diventerà mai vecchio. Franz Kafka, in Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, 1951
La convenienza al suo fine è quello in cui consiste la bellezza di tutte le cose, e fuor della quale nessuna cosa è bella. Giacomo Leopardi, Zibaldone, 1817/32 (postumo 1898/1900)
La bellezza non è qualcosa per cui si gareggia: ciascuno ha qualcosa di bello da scoprire; l’attenzione è la chiave della scoperta. Dacia Maraini, Dolce per sé, 1997
Margherita Ruglioni
“Suggestioni letterarie e non solo… ” Un titolo per il dopocena? Una poesia che ti graffia l’anima? Una lettura leggera, un saggio, un fumetto. Le frasi di un altro, che ti appartengono come fossero state dettate dal tuo pensiero. Leggere è viaggiare, è incontrare, è non essere mai solo. Leggere è vita. Nella rubrica ti darò solo qualche suggerimento… sta a te poi scegliere e scoprire gli intrecci.
Chi sono?
Tosco-Veneta, lavoro nella casa dei libri. Abito in una casa stropicciata, tra carte, parole e colori.
Creativa e spontanea, organizzo eventi culturali in biblioteca a Mestre, sono anche pubblicista e mi occupo di comunicazione. Leggo, scrivo, viaggio, amo. Adoro il buon cibo, il mare, la luce.
Quando posso sorrido. Penso, sì, penso molto!
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