La zattera di nessuno- Diario di una danzatrice tra abilità e disabilità di Piera Principe, Titivillus ed.
L’idea che nei primi anni di studio della danza mi ero fatta di come volevo che andassero le cose, mi rese più difficile accettarne di colpo l’arresto. La professione, le relazioni, i progetti, la mia stessa vita furono messi in serio pericolo dallo scontro in auto con un viaggiatore che procedeva in senso opposto.
Negli anni solitari post-incidente imparai a rispettare il mio corpo. I suoi tempi e i suoi silenzi divennero opportunità straordinarie per cercare le fonti reali del movimento. Il mio gesto paziente ritrovò Armonia e tornammo a danzare con tutta l’abilità della mia disabilità. Il mio corpo ed io da allora siamo complici. Questo percorso è stato il punto di partenza per avventurarmi con altri corpi complici nel viaggio de “La zattera di Nessuno”. Piera Principe
LOLA ASPETTA introduzione di Marco Baliani
Conosco Piera Principe da tempo, ci siamo incontrati anni fa in un workshop e da allora ci siamo sempre tenuti in contatto, anche se nel frattempo trascorrevano mesi e vita e esperienze diverse e anche lunghi silenzi. Sapevamo che uno c’era sempre per l’altro, come nelle amicizie vere. Di lei, a colpirmi, è sempre stata una particolare forza d’animo che solo col tempo e conoscendo la sua storia ho compreso derivasse da una fragilità interiore che era specchio di un corpo fisicamente fragile. Ma non per questo debole o vinto, al contrario questa sua fragilità è divenuta nel tempo la sua forza. Ho insistito con lei affinché in questo diario di un viaggio molto particolare e “al limite” ci fossero frammenti della sua biografia.
Il corpo di Piera è stato un campo di battaglia, spezzato, rotto, frantumato, fratturato dopo un incidente mortale e da cui lei è riemersa costruendosi dapprima una nuova crisalide per poi far sbocciare una nuova fragilità dell’essere.Non so com’era Piera prima di quel trauma, di certo, dalla scrittura, una donna ragazza diversa, viaggiatrice, un po’ pazza, sempre alla ricerca di esperienze internazionali, una giovane danzatrice aperta al mondo. Poi tutto è cambiato, e, con quel corpo ricucito a forza di volontà è emersa una sensibilità nuova. È così che Piera ha cominciato a percorrere strade poco frequentate dagli artisti della scena, attratta, perché compassionevolmente in sintonia, da altri corpi fuori dalla norma, corpi feriti, esclusi, allontanati dalle luccicanti monotonie del consumo corporeo fatto di palestre, lifting, paure di invecchiare e terrore di morire. Piera si è messa in gioco a partire da sé.
La scrittura svela i passaggi di questo percorso, e la progressiva presa di coscienza che quello che stava accadendo nel suo “risveglio” potesse divenire metodologia da applicare, non un manuale ma una mappa di possibilità espressive. Di volta in volta, per poter interagire con quegli “altri” corpi, Piera affinava la capacità di ascolto, un ascolto che va al di là dell’atteggiamento terapeutico e che per lei diventava un modo di stare al mondo, non solo nel lavoro, ma nelle relazioni minute, quotidiane. Per questo incontrarsi con lei è sempre un’esperienza di dislocamento, ti ascolta così intensamente, e ti legge i segni del corpo, che parlano anche senza che ne siamo consapevoli. I segnali corporei di cui Piera ha affinato la percezione sono evidenti nelle pagine che descrivono i passaggi del lavoro con gli abitanti della zattera, segnali che, appena colti, si trasformano in emozioni profonde al limite della commozione, nel segno di una partecipazione totale verso l’altro. Per Piera quei corpi racchiudono memorie di vite snocciolate nella ripetizione di un quotidiano spesso opprimente. Ma, una volta disancorati dalle classificazioni con cui ogni diversità è tenuta a bada, quei corpi rivelano mondi inesplorati, acquisizioni di coscienza, lampi intuitivi che di fatto fondano altre esistenze, quelle possibili appunto quando ci si dispone all’arte. Questo riesce a compiere Piera nel suoi workshop così totalizzanti, offre, a partireda sè, una strada per svelarsi, difficile, mai scontata, a volte dolorosa, ma sempre sorprendente.
La “memoria del corpo” è il logo con cui Piera sintetizza il suo percorso, da quando, stando seduta su una sedia, dopo un anno di sofferenze ospedaliere, ha ricominciato a muoversi, pezzo dopo pezzo, ricordando al suo corpo un “prima” ormai non più raggiungibile, ma proprio per questo, nello sforzo immaginativo della memoria, capace di nuove costruzioni di segni.
E così Piera è tornata a “danzare”, metto tra virgolette il verbo perché a vederla muoversi nei suoi a solo o nei lavori con Raffaella Giordano (uno fra tutti Quore, dove la sua presenza era magnetica anche nelle stasi) si assiste a una ricomposizione magica della struttura ossea e muscolare, si intuisce cioè che quei movimenti provengono da una mancanza, sono frutto di una assenza, come rischiassero sempre di precipitare nel vuoto, e però allo stesso tempo “danzano”, fluidamente nel loro spezzarsi.
Così, come nella sua storia raccontata in queste pagine, Piera alterna la presa diretta del workshop, dove è conduttrice e guida alla sua forma solitaria di libellula, dove si lascia portare da una musica o da una parola. Il libro è un raro esempio di narrazione diaristica, attraverso cui si possono “vedere” le fasi del lavoro, quasi sperimentarle nei sensi, toccarle con mano.
E poi è anche un racconto di vita, di rapporti famigliari, di amicizie, di lontananze, e i due piani di scrittura si rimandano la palla, senza separazioni. C’è poi una tesi di fondo che sottostà all’intera opera, forse è sbagliato dire tesi, si tratta piuttosto di un appello accorato per una richiesta di diritti. In queste ultime stagioni teatrali, da una ventina d’anni, il corpo del diverso è stato messo in scena, per esiti estetici e artistici tra i più svariati.
Piera rivendica il diritto alla consapevolezza creativa di coloro che, con quei corpi diversi, vengono portati in scena. Spesso si corre infatti il rischio di una eccessiva necessità di sorprendere o scandalizzare, o stupire, il baraccone dei freaks è sempre disponibile a far emozionare il borghese seduto in platea che si compiace della propria pietas e applaude alla riuscita esibizione di quei corpi impediti che pure ce la fanno e dicono e cantano e danzano. Va tutto bene, purché l’uso non sia puramente strumentale, purché il soggetto illuminato dai fari sappia cosa sta facendo, perché sia consapevoledella propria diversità e di come a partire da quella egli si sia fatto soggetto creativo completo, al pari di qualsiasi altro attore o attrice, compartecipe del processo produttivo che lo ha portato fin lì.
Questa richiesta di dignità “professionale” è molto presente in tutto il libro di Piera, “l’altro” o viene incontrato nella reciproca comprensione delle differenze o resta “cosa”, corpo manipolabile, strumentalizzabile. È questa la cosa difficile che Piera chiede, prima di tutti a se stessa, e quanto questo percorso di apertura all’altro sia conflittuale si evince da molti passaggi del diario, forse tra le pagine più belle, quelle in cui la libellula sbatte inutilmente le ali, non sa più dove dirigere il volo, si perde. Mentre il libro si componeva era venuto fuori un titolo che era in realtà il risultato di un incontro e di una nominazione.
Lola aspetta. Lola era Piera nel nome che una partecipante alla zattera aveva dato a lei, nel rapporto, non solo un nome ma un nome più un verbo. Per tutta la durata della stesura dello scritto, quando Piera mi inviava i suoi appunti, per un consiglio o per una voglia di semplice condivisione, avevo via via raggruppato i suoi files dentro una cartella intitolata appunto “Lola aspetta”. In quel verbo mi sembra sia racchiusa tutta la pazienza attenta che Piera riesce a donare e a donarsi, un regalo prezioso in questi tempi di corse affannate verso il vuoto.
Ne approfitto per ricordare che Piera Principe presenterà il suo libro in Biblioteca civica di Mestre, VEZ, villa Erizzo, martedì 4 febbraio
Il catalogo dei giocattoli di Sandra Petrignani, Beat ed.
Torniamo indietro nel tempo, entriamo in un mondo meraviglioso, quello della nostra infanzia, quello dei giocattoli, di quegli oggetti che sono stati meravigliosi compagni nelle nostre ore spensierate… Un catalogo in ordine alfabetico, da Altalena, Aquilone, Armi, Bambola, Barbie, Bigliardino, Bolle di sapone, Caleidoscopio, Cerbottana, Cubi, Fionda, Flipper… a Piccolo chimico, Pongo, Scubidù e hula-hoop, e Timbri, Trenino, Trottola, Volano, Yo-yo, per terminare con lo Zoo.
– A ciascun giocattolo Sandra Petrignani dedica una breve prosa, lirica, cesellata: poesie senza andare a capo, cariche di tenerezza; o racconti in miniatura, dove l’occhio scruta e interroga il giocattolo come cosa viva, facendone un piccolo mito personale e storico.-
– Pezzi di materia che si animano, attrezzi da lavoro dei nostri primi anni, i giocattoli ci raccontano qualcosa di come eravamo quando loro erano i nostri bizzosi, amatissimi dèi: la carabina col tappo che emetteva un rumore secco, quasi lo schiocco di un bacio, le automobiline a chiavetta con il suono di ranocchia, l’universo dei pianeti marini nelle biglie disseminate sul letto, i birilli come biberon, con quel nome da capitombolo… Oggi li osserviamo con un misto di nostalgia, inquietudine e una punta di crudeltà. Eppure, i sessantacinque giocattoli descritti in questo libro non seguono un pretesto semplicemente memorialistico. Demoni e angeli custodi, depositari di antichi incanti, paesaggi, odori, «vampiri commedianti che di notte vegliano sui bambini derubandoli momentaneamente della vita», i giocattoli, chiamati a raccolta in questo libro, ci restituiscono l’infanzia come una possibilità eterna, una bacheca colorata, allegra e scintillante, un «cosmo meraviglioso» che chiede di essere esplorato in ogni momento della nostra vita.-
Timbri – Non si credeva ai propri occhi. Farfalle, nanetti, fiori, ciliegie restavano sul foglio entro i margini precisi dell’inchiostro. Bastava premere il timbro sul cuscinetto intriso di blu e poi premerlo di nuovo sul foglio. E quando la pressione non era stata sufficiente si tentava di ricalcare il disegno una seconda volta e poi una terza e una quarta magari, la figura si scomponeva in una visione disturbata, molteplice e come in movimento.-
“È andata così”, dice il titolo dell’ultimo romanzo di Meir Shalev, narratore israeliano dalla straordinaria vena poetica e ironica al tempo stesso.
Se le sue storie sono sempre un po’ sospese fra verità e fantasia, fra passato reale e libertà dell’immaginazione, questa volta non c’è equivoco di sorta. Shalev ci racconta qui la storia della sua famiglia, che è stata, negli anni venti del secolo scorso, fra i fondatori di Nahalal, un villaggio agricolo nel Nord d’Israele. Quasi il simbolo stesso del ritorno del popolo ebraico alla terra, intesa come ideale di riscatto storico ma anche come suolo, da coltivare con le mani e con il cuore. Shalev è infatti uno scrittore profondamente “campestre”: anche nei suoi romanzi più cittadini si sente il profumo della terra. Qui il personaggio centrale è la nonna che, pur vivendo in campagna, è maniaca della pulizia. La sua ossessione, affrontata con affetto ed egual misura di sarcasmo, innesca i ricordi.
Shalev torna a Nahalal, rievoca l’amore dei suoi genitori, le gioie e i dolori della sua famiglia. Lo fa con il consueto e straordinario garbo letterario, creando situazioni sempre in bilico fra il verosimile e l’impossibile. Che però qui ci dice essere tutto frutto della realtà, della vita vissuta. –
Margherita Ruglioni
“Suggestioni letterarie e non solo… ” Un titolo per il dopocena? Una poesia che ti graffia l’anima? Una lettura leggera, un saggio, un fumetto. Le frasi di un altro, che ti appartengono come fossero state dettate dal tuo pensiero. Leggere è viaggiare, è incontrare, è non essere mai solo. Leggere è vita. Nella rubrica ti darò solo qualche suggerimento… sta a te poi scegliere e scoprire gli intrecci.
Chi sono?
Tosco-Veneta, lavoro nella casa dei libri. Abito in una casa stropicciata, tra carte, parole e colori.
Creativa e spontanea, organizzo eventi culturali in biblioteca a Mestre, sono anche pubblicista e mi occupo di comunicazione. Leggo, scrivo, viaggio, amo. Adoro il buon cibo, il mare, la luce.
Quando posso sorrido. Penso, sì, penso molto!
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