Era mio padre di Franz Krauspenhaar (Fazi)
Franz Krauspenhaar, al suo quarto libro, racconta la storia di suo padre, un tedesco nato in Italia negli anni Venti, combattente della Wehrmacht, l’armata di Hitler, durante la seconda guerra mondiale.
Narrando i ricordi di episodi vissuti personalmente e sentiti soltanto raccontare, Krauspenhaar va alla ricerca del padre perduto. Per far questo, come un rabdomante, cerca a occhi chiusi le vene d’acqua di una storia di vita interessante e piena di colpi di scena, intervallandola con la storia in presa diretta di come il libro viene concepito e scritto, in un’afosa estate. La storia di un padre che manca ma che si deve finalmente seppellire, di un figlio scrittore che lotta contro questa figura pur amandola sempre molto, e che vive la sua vita piuttosto solitaria frammezzata da telefonate di amici, da incontri galanti, da rabbie, paranoie, abbandoni quasi violenti alla tenerezza.
-La recensione de L’Indice
Franz Krauspenhaar (il ramo paterno della famiglia è originario dei Sudeti, quello materno ligure-calabrese) è stato, prima di questo Era mio padre, autore di altri tre romanzi agevolmente collocabili nella categoria eterogenea e ospitale del noir. Questa sua nuova opera sorprende non solo per la netta cesura rispetto alle precedenti “frequentazioni”, ma anche perché si sottrae alla stolida medietas di tante uscite recenti; infatti, anche se per lunghi tratti quasi incondita e rozza, questa è un’opera che turba e scuote, che irrita e disturba: “Voglio che ti prendi una vacanza dall’intrattenimento, dalle storielle sordide di morti ammazzati di carta, dallo stile ben temperato, dalle passioni inventate di sana pianta, in interni borghesi indecenti di sozzura e pulizie di primavera“.
Ma di questo si è grati all’autore; in fondo si continua a leggere per scovare quelle opere capaci di spezzare quel “mare gelato che è dentro di noi“, di cui parlava Kafka nella celebre lettera a Oskar Pollak. Così Krauspenhaar ama definire questo testo, rischiando l’ambiguità di una collocazione spuria, romanzo “bioautografico”. In questo caso, la prolessi non è mero mot d’esprit, ma il grumo semantico da cui si innesca una ricognizione spietata della propria inadeguatezza esistenziale, rinvenuta nel recupero-sofferto e nella rilettura-dolorosa del proprio passato. Il racconto in presa diretta che caratterizza buona parte dell’opera sembra fatto per placare un’insopprimibile urgenza narrativa, tanto che il libro pare, in molte sue pagine, quasi trascurato a livello di editing. Per fortuna, però, tanta ruvida asprezza stilistica non scade mai, o quasi, nel birignao manieristico. L’autore non sa (forse non vuole: è il diario di un inetto a Milano) chiamarsi fuori da un passato tragico e vischioso, da una materia ancora molto viva da cui si sprigionano furori acri e immedicabili, inquietudini e odi inveterati che il tempo, invece di esulcerare, ha rinvigorito. Scrive infatti Krauspenhaar: “Come pensare che il passato possa svanire? Il passato è passato, si dice. Come si può credere a un’idiozia del genere? Il passato è qui, ora, perché noi siamo passato, noi siamo il passato, il passato passa all’esterno ma rimane nel nostro interno notte e giorno – giorno e notte; il passato ci sveglia nei sogni“.
Una confessione scontrosa e arrabbiata, che non consente qualsivoglia indulgenza o pietas, anzi; volentieri l’autore colleziona e cataloga quantità considerevoli di disprezzo e di odio, elargendone dosi multiple all’esercito di macchiette, comparse e replicanti che attorniano l’io narrante e che assistono alla sua esistenza, alle sue storie grottesche e febbrili. Un libro fatto di sventatezze e menzogne, di lapsus e pigrizie, di un dolore recitato ed esibito, impudicamente. Una specie di mon coeur mis à nu dei tempi nostri in una Milano la cui alienante disarmonia riesce ad amplificare malanni e rancori irranciditi. La città qui non è mero orpello urbanistico, quinta decorativa ed estetizzante, ma luogo che impedisce l’accesso a qualcosa che, anche solo vagamente, possa assomigliare alla felicità. Sin da subito, per evitare ogni possibile fraintendimento, l’autore ci prospetta un assioma che fatica a essere condiviso soprattutto da coloro che vedono nella letteratura l’aspetto ludico-artificioso, l’esercizio di stile che sublima e trasfigura.
Per Krauspenhhar, invece, “i libri fatti con le viscere e col sangue sono sempre utili: a chi li scrive e, ancora di più, a chi li legge con la giusta partecipazione“. Essendo beatamente in partibus infedelium, mi si consenta di nutrire seri dubbi sulla veridicità della seconda parte. Ma sicuramente questo romanzo rientra nella categoria delle opere fatte con le viscere e il sangue, corrosivo e urticante, conto aperto con il passato e il presente (e anche il futuro, sicuramente) di chi l’ha scritto. Come recita il titolo, il tentativo è quello della costruzione di un mémoire incentrato attorno a una figura paterna, ingombrante e non addomesticabile: un tedesco nato nel luogo (Italia) e nell’epoca sbagliata (anni venti), combattente della Wehrmacht, che, tra mille travagli, compie una scalata sociale che non lo salva però da una specie di dolorosa coscienza del vivere, riflessa nei figli. Dal coacervo di storie che si enuclea attorno alla figura di questo combattente, sempre vocato alla sconfitta, si generano, quasi per filogenesi, una serie di vicende che ricadono pesantemente sull’autore, la cui esistenza è sotto il segno di una precarietà affettiva e sentimentale proposta quale modello unico di vita.
Le giornate dell’io narrante sono contrassegnate da una serie di vuoto letargico da ozio infinito, l’ennui di chi si trova a fine corsa senza essere mai partito, che non può essere tacitato attraverso espedienti tipici dell’epoca delle passioni tristi: gli amorazzi, gli aperitivi, le telefonate e gli sms, i post sul blog (Krauspenhaar è redattore del blog collettivo Nazione indiana), i film porno scaricati da internet, il soffocante edipico rapporto con una madre panoptikon.
C’è una scena, in particolare, che mi sembra sintetizzare compiutamente il mood di quest’esistenza banale, asfittica, tormentata, che suscita tenerezza e affetto nel lettore: l’io narrante che accompagna verso casa l’ennesima “fidanzata” e, preso da una specie di raptus incontrollabile, “le abbranco una tetta, la tolgo dal vestito leggero in mezzo alla strada e mi ci attacco con la bocca come un bambino si attacca al morbido e vitale biberon“. Linnio Accorroni
Ne approfitto per invitarvi giovedì 28 novembre alle ore 18.00 in Biblioteca civicadi via Miranese a Mestre, per la PRIMA LEZIONE DI… BLOG e SOCIAL NETWORK dal punto di vista letterario, tenuta proprio dallo scrittore milanese FRANZ KRAUSPENHAAR.
Il Risveglio di Kate Chopin (Einaudi)
Siamo in Louisiana, nell’epoca in cui le famiglie creole, discendenti dai coloni francesi, iniziano a mescolarsi con la società anglosassone del resto degli Stati. E’ cominciata la voga dei bagni di mare, e il romanzo si apre in una località di villeggiatura, tra signore con bambini e giovani cicisbei. Nulla d’estremo avviene nei fatti narrati lungo il corso del romanzo, ma il valore del libro sta appunto nel modo in cui da un quadro di vita quotidiana agiata e convenzionale di fine-secolo, dal cicaleccio della buona società, da una narrazione fitta e misurata che scorre leggerissima alla lettura, prende forma un imperativo interiore di libertà. Edna Pontellier, di famiglia di piantatori presbiteriani del Kentucky, sposata con un rispettabile uomo d’affari dell’antica borghesia francese di New Orleans (anche l’autrice, Kate O’Flaherty sposata Chopin, era entrata nella società creola della Louisiana per matrimonio, essendo nata nel Missouri da un irlandese e da una francese), si rende conto, tra villeggiatura e ritorno in città, della distanza tra quello che lei sente e il mondo limitato delle persone e delle abitudini che la circondano.
Gli episodi attraverso i quali la vediamo cercare di costruirsi una sua indipendenza fisica e morale, mentre gli uomini, anche quelli in cui lei investe la sua sete di libertà, rimangono prigionieri dei limiti dei loro ruoli, danno materia ad un racconto di straordinaria discrezione ed acutezza.
Con questo romanzo (1899), dapprima dimenticato e poi divenuto testo sacro del femminile, si retrodata l’inizio ideale della modernità. Corrispettivo americano di Madame Bovary, Il risveglio narra la storia di un adulterio.
Edna Pontellier, giovane e bella moglie di un uomo d’affari, madre di due figli, si innamora del giovane Robert. Divisa tra marito, figli e amante, costretta a confrontarsi con modelli femminili diversi, in conflitto con i modelli comportamentali imposti dal contesto sociale, Edna affronta alla fine una solitudine che si conclude con un gesto tragico e definitivo.
Si può pensare ad un romanzo femminista, ma, stando alle parole di David Chopin nipote della scrittrice, lei si considerava “solo” una persona che ha sempre creduto nella forza delle donne.
L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender (minimum fax)
Alla vigilia del suo nono compleanno, la timida Rose Edelstein scopre improvvisamente di avere uno strano dono: ogni volta che mangia qualcosa, il sapore che sente è quello delle emozioni provate da chi l’ha preparato, mentre lo preparava. I dolci della pasticceria dietro casa hanno un retrogusto di rabbia, il cibo della mensa scolastica sa di noia e frustrazione; ma il peggio è che le torte preparate da sua madre, una donna allegra ed energica, acquistano prima un terrificante sapore di angoscia e disperazione, e poi di senso di colpa. Rose si troverà così costretta a confrontarsi con la vita segreta della sua famiglia apparentemente normale, e con il passare degli anni scoprirà che anche il padre e il fratello – e forse, in fondo, ciascuno di noi – hanno doni misteriosi con cui affrontare il mondo.
Mescolando il realismo psicologico e la fiaba, la scrittura sensuale di Aimee Bender torna a regalarci una storia appassionante sulle sfide che ogni giorno ci pone il rapporto con le persone che amiamo.
Intervista a Aimee Bender di Ružica Babi?
1. Il personaggio principale di L’inconfondibile tristezza della torta al limone, la ragazzina di nome Rose, scopre di possedere un dono magico che consiste nel percepire le emozioni degli altri mangiando il cibo che hanno preparato. Perché hai scelto una ragazzina come protagonista? Cosa offre lei, come protagonista giovane, che un adulto non potrebbe trasmettere? Sarebbe possibile raccontare la stessa storia con un adulto come protagonista?
Nello scrivere il romanzo ho usato un trucchetto, ho immaginato che Rose raccontasse la storia guardandola a posteriori, perché a volte parla più come una persona adulta. Ho immaginato che, nel ricordare, tornasse all’età in questione. Questo mi ha permesso di dare alla sua voce una maturità che un bambino non potrebbe avere, tentando comunque di farla restare fresca e immediata. Volevo riuscire a usare tutti e due i tipi di voce, perché i bambini percepiscono il mondo in un modo molto particolare, ma volevo anche che il personaggio potesse un po’ riflettere su tutte le nuove informazioni che stava assorbendo. In realtà, avevo scritto un libro diverso con un ragazzino come protagonista, però c’era qualcosa che non andava – soltanto con la voce di Rose sono riuscita a entrare pienamente nella storia.
2. È stata una scelta pensata quella del motivo della torta al limone? Forse l’hai scelta perché ha un sapore aspro, quindi collegato in qualche modo con l’acutezza delle emozioni che Rose scopre?
Sì, esattamente. Non l’ho scelta consapevolmente, però mi è venuta l’idea del limone e mi è sembrato che avesse molto senso, pensando al libro nel suo insieme. È un sapore molto più complicato della vaniglia, soprattutto per un bambino!
3. Solitamente avvertiamo le emozioni degli altri attraverso la comunicazione verbale, oppure, ancora più spesso, quella non verbale. Percepire invece le emozioni di una persona mangiando il cibo che questa ha preparato è una modalità originale e fisica. Come sei arrivata all’idea di mangiare le emozioni altrui? Hai forse vissuto di persona una situazione in cui hai assaggiato qualcosa che ti ha parlato di certe emozioni?
Ho un’amica molto cara che parla dei propri sentimenti/emozioni come di qualcosa da digerire. Dice: «Sto digerendo la conversazione di ieri sera con mio padre», oppure, «Sto metabolizzando la discussione di ieri sera». Credo di aver fatto un collegamento mentale, perché questi verbi funzionano, hanno senso, anche se lei parla di qualcosa di molto più etereo del cibo. E sì, proprio come dici tu: il fatto che sia «una modalità fisica» rende molto più semplice parlarne. Questo vale per tutti gli elementi magici presenti nelle storie che racconto: la magia è essenzialmente fisica quindi è più facile per me scriverne!
4. All’interno della tua storia si inverte la credenza secondo la quale il cibo preparato in casa ha un sapore migliore del cibo industriale. Era questa l’idea che avevi in mente quando hai deciso di scrivere il libro?
Mentre scrivevo, sapevo che non avrei voluto che il libro diventasse una sorta di esaltazione della buona cucina. Mi piace mangiare bene, però mi rendevo conto che quella sarebbe la strada più prevedibile, e la verita è che io credo davvero che ci sia qualcosa di molto invitante nel junk food. Mi è capitato, a volte, di aver voglia di cibo trattato, poco sano e schifoso: perché? Ecco, volevo riflettere sulla ragione per cui è così invitante, e per cui a volte va bene concederselo, tanto per cambiare. Ho un’amica che ha una grande vita sociale, è in contatto con molte persone, e però ogni tanto sente il bisogno di mettersi a guardare la tv, per prendersi una pausa da tutti i suoi rapporti sociali; io la ammiro – lei lo sa che ha bisogno di prendersi una pausa, lo fa, e non considera suo massimo obiettivo l’essere costantemente in contatto con gli altri, perché ne sarebbe stremata. Credo che per Rose il cibo junk food rappresenti lo stesso tipo di sfogo.
La cucina delle spezie di Amit Majmudar (Frassinelli)
Mala e Ronak non sarebbero tornati tanto presto nella casa dove sono cresciuti, se non fosse stato per la telefonata della mamma: nella sua voce hanno riconosciuto un allarme nuovo, e lei ha annunciato una notizia che li ha spinti a raggiungerla.
Da tempo ormai i due giovani hanno preso le distanze dai genitori indiani emigrati tanti anni prima, rinnegando in qualche modo le tradizioni per sposare senza riserve il sogno americano.Mala è medico come la madre, ma diversamente da lei non ha rinunciato al lavoro per i figli.
Ronak si è costruito una magnifica carriera e ha sposato una ragazza wasp, niente più sembra legarlo alla cultura della famiglia. Eppure, dopo qualche giorno di imbarazzata convivenza, l’affetto e i ricordi riemergono intorno alla tavola materna dai colori caldi e dai profumi inebrianti.
Perché la mamma ha deciso di dedicarsi alle ricette della tradizione indiana, usando aromi e spezie come un collante per riaggregare a sé i figli. I quali, piano piano, si lasciano avvolgere dai riti del cibo: soprattutto Mala, che decide finalmente di imparare a cucinare sotto la guida della mamma.
Preparare il cibo diventa così un vero e proprio atto d’amore, il modo più naturale per conservare la memoria dei sentimenti e renderli immortali.
“La cucina delle spezie” è un racconto dolce e struggente, a volte malinconico ma sempre intenso, sull’importanza dei legami e delle tradizioni, calato in un’atmosfera calda, intima, che intreccia emozioni, ricordi, rimpianti e arte della cucina.
Margherita Ruglioni
“Suggestioni letterarie e non solo… ” Un titolo per il dopocena? Una poesia che ti graffia l’anima? Una lettura leggera, un saggio, un fumetto. Le frasi di un altro, che ti appartengono come fossero state dettate dal tuo pensiero. Leggere è viaggiare, è incontrare, è non essere mai solo. Leggere è vita. Nella rubrica ti darò solo qualche suggerimento… sta a te poi scegliere e scoprire gli intrecci.
Chi sono?
Tosco-Veneta, lavoro nella casa dei libri. Abito in una casa stropicciata, tra carte, parole e colori.
Creativa e spontanea, organizzo eventi culturali in biblioteca a Mestre, sono anche pubblicista e mi occupo di comunicazione. Leggo, scrivo, viaggio, amo. Adoro il buon cibo, il mare, la luce.
Quando posso sorrido. Penso, sì, penso molto!
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